
Com’era umano lei!
03/07/2017“Quando ho girato l’ultimo film della serie (Fantozzi 2000 – La clonazione, 1999), mi sono sentito liberato da un incubo”, diceva Paolo Villaggio in un’intervista a La Stampa nel 2015, anno del 40mo anniversario della sua creatura. È vero, un attore che ha lavorato con grandi registi del calibro di Olmi, Ferreri, Wertmüller, Avati, Corbucci, Monicelli o Fellini, non può identificarsi solo in un personaggio. Ma ora che Villaggio si è spento, a 84 anni, in una clinica di Roma, i ricordi tornano automatici alle tante scene memorabili della saga del buon ragionier Ugo: riecco allora le corse frenetiche per timbrare il cartellino, le estenuanti visioni, con successiva messa in scena, della Corazzata Potemkin (storpiata in Kotiomkin per mancanza di diritti), le improbabili avventure sportive (tennis, calcio e ciclismo) e una “semplice” battuta di caccia che si trasforma in un conflitto bellico.
Il punto è che Fantozzi ha segnato profondamente la tragica e cinica comicità di Villaggio, oltre a lasciare una traccia indelebile nella commedia italiana. Non prenderla male allora, Paolo, se ti ricordo partendo proprio da lui. Una figura, il ragioniere, che era l’avatar del suo autore, stampo creativo anche per altri personaggi che lo seguiranno, da Giandomenico Fracchia (Fracchia e la belva umana, Fracchia contro Dracula) a Paolo Ciottoli (Ho vinto la lotteria di capodanno), passando per i perdenti di Le comiche, Pompieri o Scuola di ladri. Pur essendo una figura in sé tristissima, Fantozzi diverte e sempre divertirà. Perché? Anzitutto perché fa leva su un non certo nobile meccanismo della mente umana, che trova godimento e sollievo guardando chi sta peggio. E in quanto a umiliazioni morali e fisiche, Fantozzi non lo batte nessuno.
Iperbolico nella sua nullità e insoddisfazione, esagerato nelle sue sfighe, Fantozzi in tutti i suoi dieci film innaffia di satira e pessimismo le dinamiche slapstick del cinema muto, mettendo nel mirino lo snobismo e la prepotenza di intellettuali, ricchi e potenti. È una risata nella e della sventura che è passata di generazione in generazione, entrando nel nostro immaginario culturale, tanto che il nome del personaggio si è presto trasformato in epiteto. Succede quando un prodotto di fantasia traccia un solco importante nel pensiero comune, inserendosi nella comunicazione di massa grazie a un linguaggio popolare e “ignorante”, di voluti strafalcioni e congiuntivi mal coniugati.
Io i film di Fantozzi ho cominciato a guardarli da piccolo e me li ricordo perché li guardavo con i miei genitori: ridevano praticamente a ogni scena e vedendoli contenti, nella mia ingenuità di bambino, non ho potuto non affezionarmi a colui che li divertiva così tanto. Solo crescendo ho individuato i tanti sottotesti delle sue storie grottesche, e il sentimento non è cambiato. Esprime una condizione troppo universale, Ugo, per essere respinto. Il suo disagio esistenziale è lo stesso dei giovani che, oggi, guardano il proprio futuro incerto, senza sapere se e quali opportunità offrirà loro.
Presto, prestissimo, siamo tutti diventati Fantozzi, forse senza sapere che in fondo lo siamo sempre stati. E non c’è nulla di cui vergognarsi: alla fine, è ciò che ci rende umani.
Ora, scusate, ho una frittata con le cipolle e una maratona che mi aspettano…