Suspiria, l’ipnosi stregata di Guadagnino

Suspiria, l’ipnosi stregata di Guadagnino

06/01/2019 0 Di AndreMovie

Sin dalla prima volta che ho visto Suspiria (avevo 17 anni e il supporto era un VHS con nastro piuttosto rovinato) ho capito che, caso mai l’avessero riportato al cinema, avrei voluto godermelo in un contesto raccolto, quasi intimo. Ho sempre pensato fosse perfetto uno di quei cinema di periferia, magari scampato a una chiusura pressoché certa e invece sventata in extremis grazie a chi di cinema si nutre, anche per lavoro.

Per questo ho esultato quando ho scoperto che l’unica (o poco ci mancava) programmazione in zona nord di Milano con orario decente (21.15) del remake di Luca Guadagnino era di casa al Metropolis, cinema di Paderno Dugnano dove sono cresciuto. Oggi ha un adorabile aspetto vintage da “c’era una volta” (un applauso alla Fondazione Cineteca Italiana che l’ha resuscitato) e Suspiria l’hanno proiettato in sala Chaplin: pareti rosse, moquette sul pavimento, luci soffuse e, guardando lo schermo sulla destra, un curioso e scenografico pianoforte in legno, quasi come se dovesse arrivare qualcuno a suonarlo per creare la colonna sonora di un film muto.

Ma il nuovo Suspiria com’è? È un film con un’anima. Viva, pulsante. Che per certi versi si allontana dall’originale di Dario Argento, ma in fondo chissenefrega: l’errore più grande nel giudicare un remake è ritenere imprescindibile il legame col modello base. Cercassi un’esperienza simile, mi spappolerei il cervello guardando in loop Psycho di Gus Van Sant, che riproduce inquadrature e timing delle sequenze del capolavoro hitchcockiano (e con VINCE VAUGHN nei panni di Norman Bates: no, grazie).

Il film di Argento conserva una stranezza enigmatica non replicabile e sfida il pubblico con una serie di shock audiovisivi che innescano una sorta di prova di resistenza alla visione. È immerso in una dimensione barocca da musical che trova i suoi acuti in omicidi sempre più spettacolari e spaventosi e, grazie all’immortale colonna sonora dei Goblin, crea l’illusione di cadere in un lungo rituale di iniziazione.

Guadagnino riesce solo in parte a riprodurre queste sensazioni, ma realizza comunque il film che aveva in mente, quello che LUI avrebbe voluto fare con quel tipo di storia in mano. Due ore e venti di durata forse sono eccessive, ma il risultato è un’ipnosi stregata dalla potenza a tratti viscerale, molto fisica, che sulle splendide note della musica di Thom Yorke dei Radiohead via via scava sino alla sua radice esoterica.

Diviso in capitoli, che si articolano lungo una narrazione labirintica, regala il meglio in una prima parte elegante e onirica, che costruisce le inquietanti basi dell’escalation horror finale (un po’ grottesca a dire il vero…).

Gli omaggi ad Argento – e a Mario Bava, Hitchcock… – sono da ricercarsi nelle inquadrature (alcune delle quali riprese paro paro dal Suspiria del ’77), nei giochi di specchi e riflessi, nelle prospettive distorte che creano vertigine. Il resto, è materia di un’altra mente, perché Guadagnino parte da un cinema che ha fatto scuola e ne reinterpreta a modo suo i paradigmi: quanto fatto può non piacere, ma serve conoscenza per tradurre un certo linguaggio e il regista, di conoscenza, ne ha da vendere.

Ma arriviamo a lei, Dakota Johnson. Interpreta la ballerina Susie Bannion, panni che quel dì furono di Jessica Harper. E lo fa con un fascino subdolo, avvolgente, tra i canali primari attrverso cui si sfoga il potere viscerale del film di cui parlavo. La cosa buffa è che nella fase Cinquanta sfumature faticavo a considerarla un’attrice. Per me era giusto una ragazza che Don Johnson e Melanie Griffith avevano chiamato come uno stato americano e un panino dell’Old Wild West. Ora, uscita dall’universo Christian Grey, si è rivelata una sorpresa conturbante, che già avevo avvertito in 7 sconosciuti a El Royale di Drew Goddard (tra i miei preferiti del 2018) . È più sexy ora, coi vestiti (quasi) addosso, che in un’intera trilogia passata per la maggior parte del tempo nuda.

E poi riti pagani, risate isteriche, deliri: un vortice di pulsioni che travolge le povere ballerine della compagnia, manipolate da un gruppo di insegnanti/streghe guidate da una Tilda Swinton “multiuso”, protagonista di un’interpretazione trina grazie ai ruoli dell’ambigua coreografa Madame Blanc, dell’anziano Dottor Josef Klemperer (psichiatra) e dell’ultracentenaria – nonché leader della congrega – Helena Markos, davvero un “bel donnino”.

Qualcosa nel cinema di Dario Argento mi ha spesso respinto. È un giudizio personalissimo, ma faccio fatica a digerire la sua estetica della violenza. Sarà perché è talmente cruda da bucare lo schermo e investirmi con un’intensità tale da darmi la sensazione di dovermi togliere di dosso qualcosa di sgradevole. Guardando Suspiria di Guadagnino, di sgradevole non ho provato nulla. È un’opera sofisticata, forse più complessa e allegorica di quanto sembri. Per i puristi facile che sia troppo asettica, cristallizzata in una bellezza visiva che aggiunge un po’ di astratto allo stile soprattutto artigianale del predecessore. Ma comunque arriva. Inutile perdersi in paragoni: si tratta di due esperienze diverse, di due ricerche estetiche diverse che generano sensazioni diverse.

Ed è proprio qui la chiave, credo: se c’è una cosa che Argento ci ricorda, è che un film non è mai solo un testo, ma sempre un’esperienza. Suspiria è un esempio perfetto di questo pensiero. Lo è stato nel 1977. Continua a esserlo nel 2018, anche con una firma diversa.