
Una vita in miniatura: Benvenuti a Marwen
11/01/2019Il cinema di Robert Zemeckis ha sempre avuto qualcosa di magico. Di infantile, direi, nel senso più positivo del termine perché il regista riesce, come pochi altri suoi colleghi, a guardare il mondo con la maturità di un adulto e gli occhi e l’immaginazione di un bambino.
Benvenuti a Marwen, la sua ultima fatica, ha la sensibilità a cui Zemeckis ci ha abituati e avrebbe tutto per essere un’altra piccola gemma ma soffre di una cosa: la storia, vera, che racconta lo supera in tutto.
E’ quella di Mark Hogancamp, un uomo la cui esistenza percorre tutti gli step del classicissimo Viaggio dell’eroe. In breve: nel 2000 viene aggredito da cinque uomini fuori da un bar. Lo pestano quasi a morte, facendolo sprofondare in coma per 9 giorni. Al risveglio, Hogancamp pensa di essere nel 1984. 16 anni di ricordi spariti nel nulla a suon di calci. E con loro coordinazione motoria, proprietà di linguaggio, di scrittura. Eppure, Mark recupera ed esce dall’inferno. Come? Giocando con le bambole.

Sì, perché per elaborare la terribile esperienza, costruisce una città belga di fantasia, Marwen, abitata solo da donne guerriere armate fino ai denti (figure che sono passato e presente della vita del protagonista) e un solo uomo, Hogie (alter-ego di Mark), soldato americano precipitato con il suo aereo da quelle parti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La vita nella cittadina, riprodotta in scala 1 a 6 nel giardino della casa di Mark, si svolge proprio durante il conflitto e i cattivi, che non finiscono mai, sono soldati nazisti.
L’installazione, incredibilmente dettagliata, viene immortalata da Hogancamp in una serie di scatti che finiscono in mostra in una galleria d’arte di Manhattan.
E’ chiaro come una parabola simile già di per sé sia un film. C’è dramma, violenza, sofferenza e alla fine rinascita. Zemeckis descrive tutto questo portandoci, attraverso l’animazione digitale, nelle vie di Marwen, riproduzione in miniatura della vita di un uomo tormentato e impaurito, dipendente dai farmaci e incapace di affrontare i suoi assalitori in tribunale.

Il film descrive Hogancamp come un individuo geniale e impacciato, non solo dal trauma fisico ed emotivo. E’ un tipo strambo, eterosessuale ma con la fissa per le scarpe da donna, che indossa per, cit., “entrare in connessione con l’essenza delle pupe”. Un praticante del crossdressing, insomma, scintilla che avrebbe scatenato l’odio dei cinque uomini omofobi colpevoli della sua aggressione.
Il pregiudizio è dunque uno dei temi principali che il film affronta, cercando di trovare un equilibrio fra l’intensità emotiva del mondo reale di Mark e l’universo di Marwen. Ma la sospensione favolistica che ha fatto la fortuna di gran parte del cinema di Zemeckis qui forse alleggerisce troppo il peso drammatico della storia di base e ogni volta che l’azione diventa in miniatura avevo la sensazione di guardare uno strano spin-off di Small Soldiers.
Così, nonostante la buona interpretazione di Steve Carell (assurdo come la sua carriera sia cambiata da 40 anni vergine), il ritratto di Hogancamp non arriva al cuore fino in fondo come meriterebbe e per le mani ci ritroviamo un personaggio più vicino a un Forrest Gump impaurito, che riesce a raddrizzare la sua vita quasi nello spazio di una notte. E se ripensiamo all’inferno passato dal vero Mark, così è troppo facile.