Un buco nella retorica

Un buco nella retorica

31/03/2020 0 Di AndreMovie

Il buco è uno dei titoli Netflix del momento. In questi tempi di quarantena causa Coronavirus se ne è parlato molto e non è difficile capirne il motivo. Realizzato nel 2019, visto oggi il film appare come una grande metafora del momento storico che stiamo vivendo, un presente di isolamento e alienazione, orientato verso una domanda che credo ognuno di noi si sia fatto almeno una volta: come ci cambierà tutto questo?

Il concept del film è promettente: racconta di una misteriosa prigione costruita su più livelli, attraverso i quali scorre una piattaforma imbandita di cibo, l’unica fonte di nutrimento dei detenuti. Nessuno può tenersi per sé neppure un ossicino, ciò che non si mangia in tempo scende al livello inferiore. E, cosa più importante, nessuno resta sempre allo stesso livello: dopo un tot di tempo, chi giace “rilassato” in cima può ritrovarsi in fondo alla catena, dove da mangiare non arriva mai.

Il buco, 2019, Netflix
La “tavola” a disposizione dei detenuti della prigione. Buon appetito. (Il buco, 2019, Netflix).

Capire come adattarsi e comportarsi nel periodo di permanenza in questo luogo imprecisato è cruciale per evitare di impazzire e trasformarsi in un animale sanguinario e cannibale. Sì, perché quando il cibo scarseggia e la ragione mentale anche, lo spuntino diventa chi ti sta a fianco…

Il protagonista attraversa sulla sua pelle tutte queste fasi allucinanti, stante il fatto che in prigione ci è volontariamente. Perché? Mi sono divertito a pensarle un po’ tutte: trovare il Nirvana, isolarsi dalla città, noia, non vedere più sua moglie, smettere di fumare… o per ottenere quel certificato di permanenza di cui improvvisamente parla?

Ora, non aspettatevi che Il buco dia una risposta a tutte le domande che nasceranno nella vostra testa durante la visione, perché non lo farà. Amen, non è certo il primo film al mondo a lasciare diversi interrogativi in sospeso. A respingermi, piuttosto, è stato il suo svolgimento, troppo piatto per la struttura di riferimento.

Per capirci, nella mia testa immaginavo uno sviluppo abbastanza codificato. Mi aspettavo una sensazione di claustrofobia generale, accentuata da una stratificazione sempre più dettagliata dei vari livelli della prigione. Un approfondimento dei personaggi che il protagonista incontra e delle singole situazioni (o sfide) che deve via via affrontare quando decide che è ora di passare davvero all’azione. Una storia tenuta viva da diverse dinamiche, che le dessero un ritmo anche altalenante con picchi di tensione spezzati da momenti più onirici, psicologici, prima del grande colpo di scena. Ok, non pensavo di rivedere The Cube, ma ho reso l’idea no?

E invece mentre guardavo Il buco lo stato d’animo era sempre costante. Probabilmente sarà dipeso anche dal bisogno personale di un intrattenimento più strong, ludico, concreto, chiamatelo come volete, in questo periodo di immobilità, ma mi è parso di vedere un film troppo attento a proteggere il suo messaggio nella bottiglia.

È chiaro sin dalla prima scena l’impianto allegorico della situazione. La prigione è lo specchio dell’ingordigia e dell’egoismo di chi ha tutto contrapposti alla consapevolezza di chi sa bene cosa significhi non avere nulla, tanto meno la possibilità di portare da mangiare sulla propria tavola. Il film è una grande metafora del sistema di stratificazione sociale del nostro mondo e il fine ultimo aspira a un cambiamento profondo, nell’individuo prima e nella società poi. Una solidarietà spontanea e condivisa grazie alla quale saremmo tutti persone migliori.

Molto nobile, certamente spunto di riflessione, peccato che nel mezzo si faccia giusto il compitino. E il finale, che arriva con un’accelerata eccessiva, non fa altro che togliere intensità proprio alla morale di fondo, che sprofonda nella retorica più semplice.

La sensazione ai titoli di coda non mi ha lasciato interdetto quell’attimo che basta per capire di aver visto qualcosa che colpisce davvero allo stomaco, come mi aspettavo da un film di questo tipo. Anzi, per essere onesti, il messaggio mi era arrivato più forte e più chiaro dopo aver visitato il Padiglione Zero dell’Expo.