Single Shot: i piano sequenza da ricordare almeno una volta

Single Shot: i piano sequenza da ricordare almeno una volta

04/04/2020 0 Di AndreMovie

Tecnica interessante quella del piano sequenza. Da sempre suscita un certo dibattito: semplice e vanitoso virtuosismo, o vero frutto del genio? Ci rifletto perché in una di queste giornate di isolamento, aspettando che tutto passi o si comincino a vedere spiragli di pseudo-normalità, mi è tornato in mente 1917, il war movie di Sam Mendes girato nell’illusione di un’unica, continua ripresa, con stacchi di montaggio invisibili.

Un film di guerra girato per intero in questo modo non l’avevo mai visto. E uscito dal cinema ho cominciato a ripensare al valore effettivo del piano sequenza. Solo qualche anno fa sembrava diventata una moda, della serie “se non metti almeno un piano sequenza in un film non sei nessuno”. Non so spiegare il motivo di questa semi-ossessione, ma credo sia una tecnica insidiosa, esposta a un livello di presunzione che ne condiziona l’interpretazione. Ora, credo che chiunque decida di piazzarla in un film abbia sia una bella dose di talento, sia una certa voglia menarsela e sapete una cosa? È giusto così. Ma spesso e volentieri un piano sequenza regala ciò per cui è stato concepito: stupore, immersione, dinamicità.

Di 1917 – 3 premi Oscar, 2 Golden Gobes, 7 BAFTA – è da sottolineare la scelta di usare il piano sequenza come uno strumento narrativo che racconta, ascolta e osserva anche il più piccolo dettaglio, per trasportarci al centro dell’infernale vita in trincea.

Qualcosa di funzionale, dunque, alla storia che si vuole raccontare. E il segreto è proprio questo in fondo, perché Mendes è riuscito a dare dramma, tensione e azione dal respiro videoludico (a tratti forse eccessivo ma ci si passa sopra) a un viaggio lineare da punto A a punto B. La maestosa fotografia del maestro Roger Deakins, poi, è la ciliegina sulla torta.

1917, George MacKay
L’attore George MacKay in una scena di “1917”

I piano sequenza da ricordare almeno una volta

Naturalmente, gli esempi di piano sequenza al cinema (e anche in tv) abbondano da ben prima di 1917. Se ne potrebbero recuperare sino alla fine di questa quarantena da Coronavirus; mi limito a quelli raccolti qui di seguito: alcuni recenti, altri meno, ma da ricordare almeno una volta. Esercizi di stile sì, ma soprattutto frutto dell’abilità e del genio dei rispettivi autori.

Nodo alla gola (Alfred Hitchcock, 1948)

Alfredone, sperimentale per natura, costruisce il suo primo film a colori su una scena teatrale fissa, con dieci piani sequenza in cui la telecamera segue i protagonisti come per cogliere i fatti “in tempo reale”. Il montaggio pare annullato dagli stacchi invisibili (o quasi) tra una sequenza e l’altra. Virtuosismo fine a se stesso? No, Hitch vuole trasformare lo spettatore in co-protagonista. E forse anche distrarre la censura dell’epoca che, concentrata sullo stile di ripresa, non ha colto l’insolita – e mai esplicitata nei dialoghi – relazione omosessuale fra la giovane coppia di scapoli al centro del film. I due uccidono un loro compagno di università solo per provare il gusto dell’omicidio. Quindi nascondono il corpo in una cassapanca nel loro appartamento di New York e organizzano una festa con amici e parenti della vittima, usando la stessa cassapanca come tavolo per il buffet. Tra gli invitati c’è pure un loro professore (James Stewart), che presto comincia a insospettirsi. Si può compiere il delitto perfetto?

L’infernale Quinlan (Orson Welles, 1958)

Accade tutto nei 3 minuti di apertura, quando l’ufficiale della narcotici messicana Miguel “Mike” Vargas (Charlton Heston) e sua moglie americana Molly (Vivian Leigh), in luna di miele, si fermano a prendere una bibita fesca. Un uomo piazza una bomba nel bagagliaio di una cabriolet, prima che le due vittime (una coppia) salgano. Poi l’esplosione, le urla, la fuga in massa. Una scena coraggiosa e complessa, la prima delle tante che hanno reso il film l’epitaffio del cinema noir classico. Capolavoro.

Omicidio in diretta (Brian De Palma, 1998)

I primi 12 minuti del film, forse l’esempio migliore di tutto il controverso virtuosismo di De Palma. La macchina da presa ci accompagna all’interno della Boxing Arena di Atlantic City, teatro di un incontro di boxe per il titolo mondiale dei pesi massimi. Incontriamo subito Nicolas Cage, protagonista della storia e unico personaggio sempre presente in questa lunga carrellata: è un poliziotto corrotto, un po’ casinaro e piacione, e lo seguiamo fino a quando non si siede al suo posto a bordo ring. Facciamo in tempo a scorgere alcune situazioni e personaggi che si riveleranno cruciali nell’economia della storia, quindi il match inizia e, all’improvviso, il Ministro della Difesa viene assassinato da un cecchino nascosto nell’edificio. A Nicky Cage il compito di scoprire cosa c’è sotto…

Gravity (Alfonso Cuaròn, 2013)

George Clooney e Sandra Bullock alla deriva nello spazio. La coppia di attori interpreta due astronauti in missione per riparare una stazione orbitante. Vengono investiti in pieno dai detriti di un satellite russo, che scatenano una specie di tsunami metallico. Sono 15 minuti di immersione nell’ansia e nell’azione, travolgenti e claustrofobici come il nero dell’universo che inghiotte. Valgono tutto il film.

Birdman (Alejandro González Iñárritu, 2014)

Anche qui, l’illusione di un intero film girato in una sola ripresa. Iñárritu segue come un’ombra Riggan Thomson (Michael Keaton, quell’anno si meritava un Oscar grosso così), ex stella di Hollywood celebre per aver interpretato il supereroe Birdman sino ai primi anni ’90 e oggi in cerca di riscatto a Broadway. Vuole portare in teatro l’adattamento di un racconto di Raymond Carver, opera che scrive, dirige e vuole interpretare. La macchina da presa serpeggia insieme a lui dal palcoscenico al dietro le quinte, nei camerini, e poi fuori, in strada, quando Riggan raggiunge i limiti della follia. I movimenti in picchiata e le virate di Iñárritu coincidono con l’evoluzione delle nevrosi di Keaton, in cui veniamo inghiottiti senza poterci fare proprio nulla. E va bene così.

True Detective (Stagione 1, episodio 4, 2014)

La prima stagione della serie antologica HBO rientra tra le grandi bellezze regalateci dall’ultimo decennio televisivo e cinematografico. Un procedural ipnotico, inquietante a tratti, con due protagonisti eccezionali quali Woody Harrelson e Matthew McConaughey, quest’ultimo nel periodo di massima ispirazione della sua carriera (veniva dall’Oscar per Dallas Buyers Club). Comunque, siamo al quarto episodio e il regista Cary Fukunaga si inventa un piano sequenza di 6 minuti da ricordare: un giorno e mezzo di girato e sette ciak per un one shot ambientato nella penombra della casa in cui McConaughey fa irruzione. Ne nasce una sparatoria ripresa da più angolazioni, per un momento televisivo da togliere il fiato.

True Detective, stagione 1, episodio 4
True Detective, stagione 1: il piano sequenza dell’episodio 4

Hardcore! (Ilya Naishuller, 2015)

Ok, qui siamo un po’ al limite. Un film d’azione che traduce il linguaggio tipico di uno sparatutto in prima persona (First Person Shooting, FPS). Forse l’esempio più estremo di crossmedialità fra cinema e videogioco. Girato in go-pro, ci trasporta nella vita di un uomo che si risveglia in un laboratorio, senza ricordarsi come o perché si trovi lì. Ha solo Haley Bennett davanti a lui – maledetto… – e una memoria che va e viene in tanti flashback. Di lì a poco, verremo risucchiati in un vortice divertentissimo di pugni, calci, sparatorie, acrobazie parkour, esplosioni e quanto di più folle possa venirvi in mente. Gli stacchi sono visibili, ma le sequenze sono così dinamiche da dare l’impressione di scorrere in un unico respiro.

Daredevil (Stagione 1, 2015)

La prima stagione di Daredevil resta tra le cose migliori uscite dall’universo televisivo Marvel su Netflix. Dark, cruda, violenta, insomma tutto quello che l’MCU cinematografico non può e non ha mai voluto essere. Una bella variante della tradizione che trova uno dei suoi momenti più alti nella scena di combattimento nel corridoio di un appartamento malfamato di Hell’s Kitchen. 3 minuti di mazzate che fanno sempre piacere.

Creed (Ryan Coogler, 2015)

Adonis Jordan, figlio di Apollo Creed, contro un certo Leo Sporino, tatuatissimo e soprannominato The Lion. E’ il primo match importante del protagonista, soprattutto il primo match con Rocky Balboa al suo angolo. Poteva forse avere un montaggio classico? Per 4 minuti e mezzo siamo al centro del ring, con la camera che gira intorno ai protagonisti, va da un angolo all’altro, passa da una prospettiva a un’altra. Non è frenetica e vibrante come quella di Michael Mann in Alì, piuttosto fluida ed elegante (forse fin troppo). Se pensate sia bastato un solo ciak per girare la scena, vi sbagliate: ce ne solo voluti 12, come confermato dalla direttrice della fotografia Mayrse Alberti.

La La Land (Damien Chazelle, 2017)

La scena di apertura, che trasforma un’autostrada di Los Angeles in un caleidoscopio di danze e colori, fra le macchine bloccate nel traffico. Si è detto tantissimo di La La Land, un film che ha lasciato un’impronta importante a partire dalla capacità di andare oltre il genere, appassionando anche chi i musical proprio non li regge. La scena che introduce il film è quanto di più complesso Chazelle non potesse inventarsi: 30 ballerini, 60 macchine, oltre 100 extra a occupare non un set allestito in uno studio bensì la rampa autostradale fra le Interstate 105 e 110. A riprendere tutto con movimenti pazzeschi una macchina da presa, gru e steadycam, bacchette magiche di un’illusione meravigliosa che ci tiene sospesi per tutto il film.