
Manchester by the Sea, per commuoversi davvero
15/04/2020In un periodo storico già di per sé difficile come questo, ostaggio del COVID-19, forse non è una gran scelta tuffarsi in storie troppo emotive. Meglio perdersi nell’intrattenimento più leggero, da “stacco il cervello” almeno per due orette. Giustissimo, ma come si dice: a volte aiuta anche farsi un bel pianto. È qualcosa di terapeutico, uno sfogo potente al pari di una risata. Quindi, se cercate un film che possa scuotervi davvero, questo è Manchester by the Sea.
E’ del 2016 ma fresco fresco di disponibilità su Netflix. Uno dei film più belli di quell’anno, premiato agli Oscar per la miglior sceneggiatura originale e il miglior attore protagonista, Casey Affleck.
Manchester by the Sea è scritto e diretto da Kenneth Lonergan, che ha costruito su Affleck Jr la storia intensa e struggente di Lee Chandler, un uomo che si è allontanato da tutto e da tutti dopo che la vita l’ha messo davanti a una prova di indescrivibile sofferenza.
E’ costretto a tornare nel suo paese d’origine a causa della morte improvvisa del fratello – olé -, con cui i rapporti si erano allentati da anni ormai. Oltre alle questioni burocratiche per l’organizzazione del funerale, Lee deve occuparsi anche di suo nipote Patrick (Lucas Hedges), di cui è stato nominato tutore. E il rapporto col ragazzo è il cuore di tutto il film, primo tassello del complicato percorso emotivo del protagonista.
Per come gestisce il suo dolore, Affleck mi ricorda Davis Mitchell, il personaggio interpretato da Jake Gyllenhaal in Demolition (di Jean-Marc Vallée, altro film molto bello sul concetto di perdita). Entrambi devono riprendersi da un colpo devastante, entrambi reagiscono chiudendosi in se stessi e vagando come fantasmi.
Lonergan fa una cosa essenziale: racconta la sofferenza senza alcuna teatralità. Non ce n’è bisogno, soprattutto quando si parla di ferite che mai si rimargineranno. Per scavare in profondità, ci mostra due versioni di Lee, una nel passato e l’altra nel presente. Due ritratti opposti che si alternano nel corso del film: nei flashback vediamo un uomo sorridente che va a pesca con suo fratello e suo nipote (allora ragazzino) o abbraccia la moglie – una splendida Michelle Williams – e le due figlie piccole. Nel presente ritroviamo invece un uomo distaccato, assente, congelato nelle sue stesse emozioni.

Quando scopriamo la vera ragione dietro un simile cambiamento, la sensazione è di inaridirsi insieme a Lee. Di bloccarsi con lui. È un pugno nello stomaco che toglie il fiato, ma è fondamentale sia per capire il personaggio, sia per mettere sotto nuova luce il presente e quindi la relazione con il nipote. Un ragazzo che ha tutta l’ingenuità dell’adolescente ma è costretto a crescere in fretta, con l’aggravante di non avere più alcun punto di riferimento stabile. Facile andare alla deriva in simili condizioni, ma più si capiscono e si conoscono, più Lee e Patrick riescono ad affidarsi l’uno all’altro.
Non pensate, però, al classico rapporto che cresce fino ad assumere le caratteristiche felici di una relazione padre-figlio. No, perché Manchester by the Sea sfugge al classico happy end non per cinismo o pessimismo cosmico, ma per la sincerità con cui racconta la sua storia. Consapevole che nella vita il nuovo inizio non arriva come un’improvvisa epifania, bensì passa anche attraverso il dolore più profondo. Un dolore che non svanisce nel nulla, perché non può. Resta sottopelle, a ricordare cosa si è perso e per cui vale la pena ritrovare la forza di andare avanti.