
Il sacrificio del cervo sacro, un film che è pura inquietudine
19/04/2020 0 Di AndreMovieCerti film mi mettono a disagio fin da subito. Non so cosa scatti di preciso, è una reazione soprattutto inconscia, credo. Ma è come se mi attaccassero qualcosa di sbagliato che non riesco a scrollarmi di dosso. E’ una sensazione istantanea, sulla pelle, che non mi molla più. Il sacrificio del cervo sacro è uno di questi film.
Titoli di testa. Schermo nero per circa un minuto, poi l’immagine di un’operazione a cuore aperto, senza censure. Stabat Mater di Schubert in sottofondo, non esattamente la filastrocca del buon umore. È quanto basta per descrivere le sinistre atmosfere dell’opera del regista greco Yorgos Lanthimos. Datata 2017, premiata al Festival di Cannes, l’ho recuperata solo ora e lo dico convinto: è tra le cose più destabilizzanti che abbia visto negli ultimi tre anni.
Nel dettaglio: Steven (Colin Farrell) è un cardiologo affermato, che conduce un’esistenza idilliaca con la moglie Anna (Nicole Kidman), un’oftalmologa, e i due figli, Kim e Bob. Dall’inizio lo vediamo insieme a un ragazzo, Martin (Barry Keoghan): i due si danno appuntamento in una tavola calda, si scambiano regali. Il medico lo presenta anche alla sua famiglia. Ma c’è qualcosa di strano, percepibile a ogni inquadratura. È soprattutto Martin che destabilizza nella sua indecifrabilità: chi è? Perché conosce Steven? Cosa nasconde il loro rapporto?

Tutte domande che ronzano come zanzare fastidiose nella mia testa e non siamo neppure a mezz’ora di film. Le penso tutte, poi il puzzle si compone e il risultato è una relazione sempre più morbosa fra i due (da parte di Martin), che piano piano coinvolge anche la famiglia del medico in una spirale inesorabile, figlia di un disegno contorto e sconvolgente…
A spiazzare di Il sacrificio del cervo sacro è la freddezza con cui ci racconta una tragedia imprevedibile e irrazionale. Come se si aggrappasse a una sorta di ineluttabilità che governa le azioni di ognuno di noi, verso la quale siamo inermi. Dal primo all’ultimo minuto, non c’è momento in cui non si abbia la sensazione che stia per succedere qualcosa di spaventoso.
Lanthimos non fa nulla per ammorbidire l’effetto: muove la macchina come un pennello sulla tela, riprende i personaggi da angolazioni uniche, alterna primi piani a grandangoli, immergendo ogni scena in prospettive quasi innaturali (tipiche dei suoi lavori, vedi The Lobster e La favorita). Nel frattempo le musiche di György Ligeti diventano sempre più evocative, fondamentali nella definizione del mood narrativo generale.
Ad aumentare lo straniamento, il fatto che nessuno dei protagonisti si sforzi un minimo per creare empatia. Steven e Anna, oltre ad avere fantasie macabre in camera da letto, sono due persone che vivono con un distacco emotivo esagerato la loro routine quotidiana, cristallizzata nella razionalità. Questo provoca una distanza ambigua nel rapporto con lo spettatore, che però allo stesso tempo non può evitare di sentirsi coinvolto in ciò che li attende. Un contrasto in cui ci si smarrisce.

E mentre vaghiamo attraverso questa esposizione delle nostre paure più profonde (la salute di un figlio, il timore di non avere più il controllo della propria vita, il disagio di una presenza che ci osserva), è sempre Martin il motore dell’azione, l’elemento che frantuma la cornice di porcellana che inquadra l’esistenza di Anne e Steven. In lui il regista greco riversa il profondo simbolismo della storia, ispirata alla tragedia di Euripide Ifigenia in Aulide. L’allegoria cresce di epicità strada facendo, la storia cambia direzione senza però snaturarsi. Genera echi horror e si addentra nel buio di una tragicità mai spiegata sino in fondo, se non come un disegno di vendetta tracciato da un destino a cui è impossibile sottrarsi.
L’irrazionale vince, la violenza insita nell’animo umano chiama il sangue per il suo sacrificio, necessario per ripristinare un equilibrio che sfugge alla normale comprensione. E il senso di inquietudine che mi ha avvolto all’inizio, persiste anche dopo i titoli di coda.