The Last Dance, la docuserie pazzesca su Jordan e i Bulls da vedere su Netflix

The Last Dance, la docuserie pazzesca su Jordan e i Bulls da vedere su Netflix

22/04/2020 0 Di AndreMovie

Quello che mi è sempre piaciuto dello sport, al di là della componente agonistica, è l’alto livello cinematografico delle sue storie. E’ come se fossero film che si realizzano in tempo reale, senza un copione preparato eppure con un colpo di scena dietro l’altro. Dramma. Azione. Gioia e lacrime. Uno spettro emotivo da montagne russe, le stesse sulle quali ha viaggiato la stagione ’97-’98 dell’ultimo titolo dei Chicago Bulls di Michael Jordan, raccontata nella docuserie The Last Dance, disponibile su Netflix.

Un lavoro talmente bello per qualità dei contenuti ed epicità della storia di riferimento, che vorresti divorare subito in binge watching e invece sei costretto a tornare indietro nel tempo a quando le serie andavano avanti con un episodio a cadenza settimanale. Sigh.

The Last Dance: le immagini mai viste della dinastia Bulls

Le prime due puntate bastano per innamorarsi. Gli spunti sono infiniti. I Chicago Bulls hanno già vinto cinque titoli e sono a un bivio. La società vorrebbe rifondare subito, con cessioni eccellenti come Scottie Pippen, Dennis Rodman e Phil Jackson. MJ non è della stessa idea. Restano tutti, ciascuno con la sua bella dose di rancore verso il general manager Jerry Krause.

Un omino basso e cicciotto a cui non daresti una lira e invece è riuscito a trasformare, negli anni, una squadra mediocre in leggenda. Fatto sta che quell’anno ce l’hanno tutti con lui e le telecamere di NBA Entertainment autorizzate a seguire i Bulls per l’intera stagione riprendono tutto.

Curiosità: il produttore di NBA Entertainment nel 1997 era Andy Thompson, lo zio di Klay Thompson, stella degli odierni Golden State Warriors di Steph Curry. Guarda un po’ il cerchio della vita…

La struttura narrativa degli episodi è chiara e intrigante: alle immagini della stagione ’97-’98, rimaste nascoste per tutti questi anni, il documentario alterna flashback della carriera di Jordan, dal liceo ai successi al college in North Carolina, sino all’approdo ai Bulls (come terza scelta al draft).

Il suo arrivo porta la squadra su un nuovo livello di competizione, tanto che riescono a qualificarsi ai playoff. Non senza un’altra parentesi romanzesca: Jordan si frattura un osso del piede, la stagione pare compromessa. Senza dirlo alla società, torna al liceo per allenarsi da solo e bruciare i tempi di recupero. Non trattandosi di un essere umano normale, ci riesce, ma i manager lo costringono a giocare solo 7 minuti a partita, non un secondo di più. Lo scopo è evitare ricadute, dicono, ma MJ pensa vogliano perdere per assicurarsi la prima scelta al draft dell’anno successivo. E ovviamente scatta la polemica.

I Bulls comunque vanno ai playoffs e incontrano i Boston Celtics di Larry Bird. Che vincono la serie, ma gara 2 è una dichiarazione di onnipotenza di Jordan. 63 punti e la frase ormai storica di Bird come didascalia dell’impresa: “non era Michael Jordan, era Dio travestito da Michael Jordan“.

The Last Dance, Scottie Pippen, Michael Jordan

Salti avanti e indietro nel tempo sempre funzionali a ciò che si sta raccontando, per tracciare il ritratto più dettagliato possibile dell’eroe, ossessionato da perfezione e vittoria, e degli altri protagonisti. Perché non c’è solo Jordan – che nelle interviste ha due occhi rossi da strafatto un po’ preoccupanti -. Scottie Pippen era ai ferri corti con la società che voleva venderlo. Una storia nella storia, la sua: giocatore unico, condannato a essere il numero due, al servizio del più forte di sempre. “Il mio momento arriverà” diceva, ma il soprannome di Robin (come comprimario di Batman Jordan) non gliel’ha più levato nessuno.

Quindi Dennis Rodman, personaggio che sfugge a ogni classificazione, tanto implacabile nel catturare rimbalzi quanto eccentrico fuori dal campo. Uno che Karl Malone, dopo averlo sconfitto sul campo nelle Finals contro Utah, l’ha sfidato pure sul ring della WCW, nell’evento pay-per-view di wrestling più visto di quell’anno. Poesia.

E ancora Phil Jackson, l’unico allenatore per cui Jordan avrebbe mai giocato; Steve Kerr, il panchinaro che decise una finale con un tiro all’ultima azione; giornalisti, avversari storici come Magic Johnson, che con MJ hanno scritto pagine di rivalità (e rispetto) ineguagliabili.

La serie racconta tutti questi percorsi narrativi senza mai abbandonare la strada principale, facendoci rivivere quella stagione dentro lo spogliatoio di Chicago. Ci porta in palestra durante gli allenamenti, nei pre-partita, in campo, sul pullman della squadra. Dovunque respirasse l’anima dei Bulls.

The Last Dance è tutto questo, esempio affascinante del forte legame che da sempre lega cinema e sport. Gli episodi sono dieci, aspettare una settimana per proseguire è dura. Anche perché se già l’inizio è così appassionante, non vedo l’ora di arrivare a quella gara 6: Jordan ruba palla a Malone, punta Bryone Russell, lo semina con un crossover, un movimento a U immarcabile. The Shot. Sesto titolo e storia.