
Da Napoli al Messico: su Netflix il mito Maradona
25/11/2020Diego Armando Maradona è morto. A 60 anni, in un 2020 che non ha risparmiato neanche lui. C’è una cosa, però, che questo anno sciagurato in ogni senso non può portare via (a lui come ai vari Kobe, Morricone, Sepulveda…): l’eternità del suo personaggio.
Sì perché Maradona è uno dei personaggi più incredibili che la storia dello sport – e forse anche in generale – ci abbia mai regalato. Morte e resurrezione sono un binomio che l’ha sempre contraddistinto. In lui c’è praticamente di tutto a cavallo di genio e sregolatezza, ossia quei due estremi che di solito regolano la vita di anime non comuni. Artisti, in una parola. E sportivamente, quindi nel suo ambito, Diego era un artista.
Incantava con quella palla, stupiva, meravigliava, imbrogliava. Se cercate due strade per inquadrarlo, anche solo in minima parte, Netflix è il territorio giusto, perché in catalogo ha ancora Diego Maradona e Maradona in Messico: il primo è un documentario, intimo ed emozionante, che ripercorre vita e carriera del Pibe, dalla miseria di Villa Fiorito in Argentina alla gloria e gli eccessi di Napoli; la seconda è invece una miniserie che segue la sua avventura da allenatore dei Dorados, la squadra locale di Culiacàn, cittadina famosa per il narcotraffico in Messico. Due prodotti agli opposti per stile e concetto, ma esemplari del personaggio.
Il doc è diretto da Asif Kapadia, che già aveva tracciato il ritratto di un’altra icona sportiva quale Ayrton Senna. Come il pilota di F1, Maradona era ed è il simbolo di una nazione e di una città, Napoli, che l’ha sì divinizzato ma allo stesso tempo non si è fatta scrupoli – almeno una parte di essa – a sfruttarne la popolarità. E il film descrive molto bene il meccanismo che negli anni ha fagocitato Diego, spremendolo sino all’ultima goccia. Lui, poi, dagli eccessi non è mai sfuggito e anzi, sembrava proprio andarci incontro: le feste, le donne, la cocaina, tutto in una corsa controcorrente che ne ha condizionato fino alla fine vita privata e sportiva.

Bellissime le immagini dal campo, primo luogo di felicità, che seguono Maradona da prospettive ravvicinate, quasi come se fossimo insieme a lui e a quel pallone incollato al piede. Altrettanto belle le immagini più intime, inedite, che mostrano l’amore per la famiglia ma anche la distanza che la dipendenza dalla droga provocava in casa.
D’altra parte, non puoi raggiungere il sole e forse andarvi anche oltre senza cadere prima o poi. E la caduta di Maradona è stata di un’onda d’urto squassante, perché è stata la caduta di un uomo che dalla vita ha risucchiato tutto e non si è mai risparmiato, anche per via di una generosità sempre esaltata da tutti, compreso chi di quella generosità si è servito per scopi propri.

E poi c’è il personaggio, nel senso più narrativo del termine. Quella parte di lui che lo guida a braccetto dei potenti, nello sport e in politica, che lo porta in tv e lo rende protagonista della miniserie citata sopra. Un’opera che, in confronto al ritratto intimo del documentario, si fa anche caricatura mostrando l’istrione che urla in panchina, negli spogliatoi di una squadra di serie B messicana che sembra relegata ai confini del mondo e che fatica a contenere un simile uragano, seppur in condizioni fisiche già precarie.
Il punto è che dici Maradona e si spalanca un mondo. Epico in tutto, nella grandezza in campo e negli oltraggi fuori, così come nella forza di volontà scatenata per uscire dalla povertà impressionante in cui è cresciuto. Una miseria mai dimenticata, bensì ricordata per trasformarsi in una sorta di uomo del popolo.
Giusto separare il Maradona calciatore dal Maradona di tutto il resto? Forse, anche se una faccia non cancella l’altra. E questo avviene perché figure come Diego, talmente grande da sfuggire a ogni tipo di giudizio o confronto, incarnano l’essenza stessa del racconto, inteso come qualcosa che si tramanda, a volte si esagera, spesso si trasforma, definendo però sempre e solo l’identità dell’eroe. Che, come sappiamo, il tempo non porta via. Anzi, accompagna fra le generazioni, rafforzandone l’appartenenza.