
Quarto Potere: guida per la Generazione TikTok
30/11/2020Possibile che alle porte del 2021, un film del 1941 sia considerato il più grande di sempre? Sì, se il film in questione è Quarto Potere di Orson Welles. Ma la vera domanda, dal vago respiro marzulliano, che mi sono fatto in questi giorni (e che mi viene in mente ogni volta che penso a capolavori immortali come questo) è: come arriva un’opera del genere ai giovani occhi di chi oggi vive di digital e social, fra TikTok e affini?
A scanso di equivoci: la mia non è una riflessione che parte da una svalutazione della così definita Generazione Z, anzi. Mi interrogo solo su come rendere interessante un film di 80 anni fa a chi, senza colpe, magari non ne ha mai sentito parlare. E dunque ha chiaro bisogno di soccorso.
Provo allora a immaginarmi questo ipotetico faccia a faccia con un adolescente che chiamo in via simbolica Z e che mi auguro abbia una passione, seppur acerba, per il cinema. Di certo stuzzicare una minima curiosità e apertura di fondo renderebbe l’impresa meno impossibile e va bene tutto ma io in questo 2020 non voglio più sbatti.
Ora, Z è abituato a una fruizione di contenuti veloce, mainstream, liquida e mobile. Quarto Potere è un film dall’imponente dimensione autoriale, due ore a ritmo lento, in bianco e nero, sulla storia frammentata di un magnate della carta stampata. E già parlare di carta a chi si muove con disinvoltura lungo un touchscreen… beh, sa di preistorico. Insomma, capirei se si creasse una certa resistenza. Ma a Z dico di mettere da parte i pregiudizi con una semplice premessa: vederlo è una di quelle cose da fare almeno una volta prima di morire, a maggior ragione se si ama il cinema.
Scolpito questo sulla pietra, comincio a spiegargli come Quarto Potere sia ben più moderno della sua età, molto più avanti di tantissimi altri titoli contemporanei. Le ragioni vanno al di là degli aspetti puramente tecnici. E qui, a mio rischio e pericolo, mi lascerei attirare dallo spiegone: certo, ha il suo discreto merito l’aver inventato la profondità di campo come la conosciamo oggi attraverso lenti speciali create ad hoc e la potentissima illuminazione del teatro di posa (“teatro di che?” La prossima volta…). Così come l’aver rotto senza troppi rimorsi i canoni della Hollywood classica, con una narrazione frammentata da flashback anziché lineare e una regia che svela l’esistenza della macchina da presa, trasgredendo quell’invisibilità al pubblico che sembrava un dogma indistruttibile. Ma, appunto, è tutto l’insieme che vale la pena conoscere per comprendere la grandezza.
Mentre mi perdo in questi splendidi dettagli, Z ha già postato un tutorial sulla PlayStation 5, un balletto, un video con mille filtri e uno su di me che vaneggio su un film di 80 anni fa. Così, gioco la carta Netflix, nella speranza di rientrare in un territorio comune. Dal 4 dicembre infatti sulla terra di Stranger Things e La regina degli scacchi arriva Mank, il nuovo film di David Fincher (“chi?” – Muoio dentro, ma dico guarda Seven e Fight Club, poi ne riparliamo) che racconta di Herman Mankiewicz, lo sceneggiatore che Quarto Potere l’ha scritto a letto, azzoppato da un incidente alla gamba e in preda all’alcolismo.
A questo punto insisterei: si parla ancora oggi di film più grande di sempre per l’influenza senza precedenti che ha avuto sul cinema, prima e dopo di lui. Ha segnato un solco profondo, non c’è più stato un titolo che abbia avuto il suo stesso impatto, e racchiude così tante storie insieme che è difficile scegliere da quale iniziare quando lo si vuole in qualche modo raccontare.
Mars Attacks! Tutta colpa degli alieni
Preso bene da quel briciolo di attenzione guadagnato, faccio un salto ancora più indietro, nel 1938, al che Z torna a perdersi in un amen… Allora grido: alieni!! Sì, perché i marziani quell’anno hanno invaso la terra. A essere precisi si sono fermati un po’ in New Jersey. E mentre infarcisco tutto con persone disintegrate, loop temporali, Thanos che schiocca le dita, Tom Cruise che corre e via dicendo, aggiungo che a informare l’America dell’invasione è un ventenne, un ragazzo come te Z, che nel corso della trasmissione radiofonica Mercury Theatre on Air documenta l’attacco con bollettini quotidiani serratissimi.
Il risultato è così realistico che centinaia di cittadini spaventati si riversano nelle strade pronti a difendere il loro giardinetto. Altri, meno impressionabili (o forse solo sani di mente), restano con l’orecchio incollato, affascinati dal potente storytelling di quel giovane, Orson Welles. Che in fondo nel 1938 non aveva fatto nulla di tanto lontano da quello che fai tu, Z, su TikTok e simili, perché aveva creato un contenuto. E quel contenuto era arrivato a tutti i suoi “followers”, producendo le reazioni più svariate che oggi si esprimerebbero in emoticon, mi piace ecc.
Welles trasudava la sicurezza di chi ha ed è qualcosa di speciale. Genio e caratteraccio sono stati i due elementi cardine della vita di un personaggio nato troppo presto e vissuto in un tempo che non era ancora pronto per lui. Ma il bello è che, avverso com’era al controllo dei grandi Studio di Hollywood, anche oggi avrebbe avuto non pochi problemi a lavorare. Per capirci, Z, non avrebbe mai accettato di lavorare per la Marvel…
Ma tornando alla nostra storia, quella rivoluzione radiofonica convince una malandata RKO Pictures a volerlo nel suo team. E Welles non fa nulla per nascondere la sua testardaggine: parte subito con due progetti ambiziosi ma che naufragano presto (una rilettura di Cuore di tenebra di Joseph Conrad e un poliziesco, Smiler with a Knife, cestinato dopo la rinuncia delle due attrici protagoniste) e poi, insieme al già citato Mankiewicz, si butta su Quarto Potere, che dirige e interpreta da protagonista. A 24 anni.
In verità quanto ci sia di Welles in quella sceneggiatura resta materia di discussione (per questo non vedo l’ora di sapere se e come il film di Fincher riuscirà a illuminarmi). Quel che è certo è che Quarto Potere avrebbe potuto non vedere mai la luce. “Pure quello?!” mi dice Z, “ma allora non era così tanto genio, tre su tre!” Stai caaalmo, dico io. Succede, se per il tuo film ti fai nemico l’uomo più potente del tuo tempo.
Sì perché Quarto potere è anche la storia di una guerra, una faida con un milionario magnate dell’editoria come William Randolph Hearst, il primo ad aver intuito ed esaltato il potere della stampa sulle masse. A lui infatti, che viveva in un gigantesco castello in California, si deve il “Yellow Journalism”, ossia quella stampa scandalistica che, spesso senza preoccuparsi del fondamentale controllo delle fonti, pubblicava notizie incredibili, sensazionali, create più per stupire che per informare. Fake news, Trump, Barbara D’Urso… presente, Z?
Ora, Welles e Mankiewicz hanno sempre negato che il film si sia basato su Hearst, ma i dettagli in comune fra lui e Charles Foster Kane, il protagonista, sono parecchi. In più Mankiewicz conosceva bene lo stile di vita del magnate: era infatti amico dello sceneggiatore Charles Leaderer, a sua volta nipote dell’attrice Marion Davies, amante di Hearst. Entrato nella cerchia ha avuto modo di osservare tutto e ispirarsi per la sceneggiatura.

Quindi immaginati la situazione: con l’uscita del film, il primo di un ragazzo arrivato dal nulla a Hollywood, una casa come la RKO sta per dichiarare guerra a un gigante. Il sovrano di un autentico impero mediatico che cerca di usare la sua influenza per boicottare l’uscita della pellicola, temuta dall’intera industria che non vuole grane da mal di testa.
A George J. Schaefer, presidente della RKO, vengono offerti 842 mila dollari dalla Lowes Internationals, che gestisce le finanze della MGM, per comprare il film e bloccarne l’approdo in sala. Ma Schaefer rifiuta, deciso a regalare Quarto Potere al mondo. Il problema è che all’inizio i distributori non lo vogliono nelle loro sale e si rifiutano di proiettarlo, salvo poi cedere a seguito delle minacce legali di Schaefer.
E sai la cosa ironica, Z? Dopo tutto questo casino, all’uscita il film viene praticamente ignorato. Nonostante gli scandali e le recensioni entusiaste, al pubblico interessa poco e al botteghino è un flop. Guadagna comunque nove nomination agli Oscar, ma alla sera della cerimonia è fischiatissimo e l’unica statuetta che porta a casa è quella per la miglior sceneggiatura originale di Mankiewicz, riconoscimento interpretato dai più come un omaggio all’autore piuttosto che al film.
Il punto è, Z, che un simile contesto non ha comunque impedito a Quarto Potere di assumere il suo posto nella Storia del cinema e dell’arte in generale. E per fortuna, aggiungo io. Sarebbe stato un peccato mortale ignorare un’opera del genere, figlia di chi ha rotto ogni equilibrio conosciuto all’epoca e, per questo, ha compromesso il suo rapporto con un’industria che l’equilibrio voleva governarlo.
Welles purtroppo non ha più avuto lo splendore artistico sfoggiato con il suo esordio stupefacente, anche perché non ha mai più avuto lo stesso tipo di controllo sulle sue opere. Anzi, da L’orgoglio degli Amberson a L’infernale Quinlan i suoi film (tutti comunque da vedere, mi raccomando) sono sempre stati manipolati – e a volte snaturati – dagli Studio. Vero che dall’altro lato lui non abbia mai fatto nulla per evitarsi i contrasti, ossessionato com’era dal suo stesso genio.
È vero, c’è un sapore amaro in coda a tutta questa storia. Ma cosa ci insegna, Z? Ci insegna che l’arte e la propria genialità, di qualsiasi misura siano, restano due forze che non possono essere imprigionate in rigidi controlli. Devono fluire, scorrere senza paura. E, cosa più importante, Quarto Potere, che ha rischiato di non esistere, esiste e si può vedere ancora oggi a 80 anni di distanza.
Non sappiamo se e come la carriera di Welles sarebbe cambiata se alla 14ma edizione degli Oscar avesse avuto i riconoscimenti che meritava, fra cui Miglior film. Ma sappiamo, senza dubbio alcuno, che il cinema come lo conosci tu, senza Quarto Potere e senza Orson, oggi non sarebbe lo stesso.
Io ci ho provato, Z. Ora sta a te.
