
Mank: su Netflix è grande cinema. Ma non per tutti…
05/12/2020Mank è grande cinema, ma non per tutti. Nel senso che è necessario conoscere il background generale per capire davvero perché, dal puro punto di vista cinematografico, sia il film più importante del 2020.
Non c’entrano solo la Hollywood degli anni ’30, Orson Welles e Quarto Potere, ma anche il contesto storico di un’America in depressione, di un’industria cinematografica costretta a dimezzare gli stipendi e di personaggi come William Randolph Hearst, il magnate dell’editoria su cui Quarto Potere è plasmato.
Conoscere un minimo il territorio in cui il film si muove è indispensabile per comprendere al meglio le relazioni tra i personaggi e inquadrare il protagonista, Herman J. Mankiewicz, Mank per gli amici, lo sceneggiatore del “film più grande di sempre”. Lo interpreta un Gary Oldman splendido nel dare corpo a un uomo sfatto e non privo di contraddizioni, che cammina fra cinismo e idealismo lungo il filo dell’alcol.
Mank è un ex giornalista e critico newyorkese che entra nella cerchia dorata di Hearst (Charles Dance). I due si incontrano sul set di un film della MGM di cui il magnate è azionista. Un breve momento ma sufficiente per ingraziarsi chi ha potere e procurarsi un contratto di lavoro a colpi di battute taglienti, di cui Mank è il re.

La sua, però, è una parabola triste, racchiusa perfettamente nella storiella della “scimmietta che suona l’organetto”, citata in due momenti chiave del film. In fin dei conti, nella cricca di Hearst, Mank è come il buffone di corte, un giullare che fa acrobazie con le parole figlie di una creatività artistica che al tavolo dei potenti si sgonfia della sua carica geniale.
Proprio questa misera consapevolezza spinge Mank a toccare il fondo e qui nasce il sentimento di rivalsa che in qualche modo incarna la sceneggiatura di Quarto Potere, ultima occasione per dare tangibilità e credibilità a una carriera e a una vita intera. 90 giorni di tempo per stendere la prima bozza, 90 giorni di tempo per trovare la catarsi, inchiodato a letto dopo un incidente d’auto e isolato in un ranch in campagna con infermiera e dattilografa al seguito.
Ma è tutto il cast essere perfetto, a cominciare da un’Amanda Seyfried meravigliosa nei panni di Marion Davies, attricetta da commedia e amante di Hearst che cerca di sfondare in produzioni più drammatiche e importanti. Con Mankiewicz instaura una relazione platonica e ambigua quanto basta per spargere sentori di triangolo amoroso, ma il massimo splendore lo raggiunge unendosi alla fila di persone che, come fantasmi del passato, raggiungono a turno Mank per chiedergli di bloccare la sua sceneggiatura troppo “scomoda” per coloro che osa sfidare. Marion sceglie la dolcezza di un picnic, nella sua semplicità una delle scene più belle del film.

È inoltre affascinante la cura con cui si srotola la collezione di riferimenti storico-culturali e di piccoli dettagli come quel cerchio che compare ogni tanto in alto a destra sullo schermo, simbolo del cambio di bobina di una volta. Fa un certo effetto guardare un’opera simile, così fedele al suo tempo narrativo, su una piattaforma come Netflix, simbolo della fruizione moderna, perché ne nasce un forte cortocircuito fra epoche.
Eppure, probabile che senza Netflix un film del genere, lontano dall’intrattenimento da grande pubblico, sarebbe stato limitato dall’esclusiva uscita al cinema (come altri prima di lui, vedi Roma o The Irishman). E questo è un dato che rinvigorisce il dibattito sul valore dello streaming, che non può e non deve essere un nemico della sala, anzi ha già dimostrato di essere una finestra distributiva preziosa a 360 gradi, per prodotti di nicchia come per produzioni più importanti.
Tornando al film, è un peccato che al rapporto fra Mankiewicz e Welles (Tom Burke) sia stato dedicato poco spazio, che si esaurisce in una sola scena. Un attimo, per quanto esemplare del grande ego e narcisismo di entrambi. Ma Orson nel film è più una figura spettrale, una presenza che aleggia su Mank e lo controlla a distanza lungo la stesura dello script, mentre cerca di portare avanti l’ambizioso adattamento di Cuore di tenebra di Conrad, progetto poi naufragato.
Il punto è che David Fincher non ha girato un film sul making of di Quarto Potere, piuttosto sui personaggi e il contesto che ne hanno ispirato la creazione, traducendo una sceneggiatura scritta tempo fa da suo padre, scomparso nel 2003. L’architettura è simile – secondo un parallelismo che presumo fosse voluto – a quella di Quarto Potere, con il racconto che procede in flashback frammentando il ritmo attraverso il montaggio alternato. Il resto lo fanno la bravura degli attori e la fotografia di Eric Messerschmidt, che dipinge tutto di un cremoso e ipnotizzante bianco e nero.
In sostanza, dunque, Mank è un film sul talento e l’autodistruzione di chi vacilla nel trovare il suo posto come artista e il suo valore come uomo. È un’opera che respira e si nutre di cinema. E questi sono motivi più che sufficienti per vederlo e per definirlo un grande film.