
Pieces of a Woman, il dolore da Oscar di Vanessa Kirby
12/01/2021È emotivamente devastante l’introduzione di Pieces of a Woman. Siamo in casa di Martha (Vanessa Kirby) e Sean (Shia LaBeouf), la coppia protagonista. I due aspettano il loro primo figlio, una bambina, e hanno deciso per il parto casalingo. C’è emozione e tanto amore. Le acque si rompono e l’ostetrica di fiducia è impegnata con un’altra nascita complicata, non può venire. Arriva dunque una sostituta, Eva (Molly Parker), che assiste Martha sempre più dolorante. La macchina da presa riprende i protagonisti senza mai staccare, spostando il punto di vista di stanza in stanza. È chiaro che qualcosa non stia andando per il verso giusto e il piano sequenza conduce la dolcezza iniziale verso una tensione sempre più pesante. Sino al tragico epilogo.
Il primo merito del film di Kornél Mundruczó si può individuare già da qui: ti butta subito di fronte alla sofferenza. Che arriva senza avvisaglie o preamboli, come nella vita. Questo è un approccio al dolore onesto che crea immediatamente una forte empatia e ci proietta in un viaggio di metabolizzazione faticoso.
Le reazioni dei personaggi sono diverse e violentemente contrapposte. Martha cade in un silenzio composto, quasi distaccato; Sean ricomincia a bere; Elizabeth (Ellen Burstyn), la madre di Martha, vuole inchiodare l’infermiera che ritiene colpevole di negligenza. Sono tre poli opposti che non possono evitare di scontrarsi.

Vanessa Kirby, già premiata con la Coppa Volpi a Venezia, è bravissima e bellissima nell’incanalare un dolore che NON è apatia, bensì espressione di un vuoto (fisico e psicologico) profondo, che non si ricolmerà mai del tutto. Una performance da Oscar, che ricorda quelle di Jake Gyllenhaal in Demolition o Casey Affleck in Manchester by the Sea, solo per citare due esempi veloci.
La grandezza del lavoro dell’attrice sta nel riuscire a congelare il dolore con grande sensibilità, sino a trasformarlo nel suo vestito. E a questa calma apparente si contrappongono la reazione di Shia LaBeouf, più disperata, violenta, carnale, e la reazione combattiva di Ellen Burstyn, convinta che alzare la voce contro un colpevole sia fondamentale per andare avanti e per dare un senso a qualcosa di gigantesco e illogico.
Non è un caso che la seconda scena più “forte” del film sia girata ancora in piano sequenza, che recupera il valore narrativo già ricoperto all’inizio. Stavolta non siamo più in casa di Martha e Sean ma in casa di Elizabeth, teatro di uno scontro madre/figlia che accresce ulteriormente la carica emotiva dello spazio domestico, ormai luogo di distanze e solitudine.
Ancora scossi da questo punto di rottura, ci troviamo ad affrontare un processo difficile, che in fondo sappiamo non essere giusto per nessuno. L’immedesimazione è totale, da una parte con Eva, che rischia il carcere, dall’altra con Martha, costretta a ripercorrere una notte che preferirebbe rimuovere piuttosto che ricordare. Eppure, proprio il ricordo, forse come nient’altro nella vita, ha la capacità di trasformarsi da pugnalata in energia positiva. E come la sofferenza, si presenta senza preavviso.
A volte un nuovo inizio è più vicino, e soprattutto più possibile, di quanto si possa immaginare.