
A Classic Horror Story, è made in Italy l’horror dell’estate
17/07/2021A Classic Horror Story, lo dice fin dal titolo, è una storia di paura molto tradizionale. Cinque sconosciuti si incontrano per fare carpooling e, durante lo spensierato viaggio on the road, arriva puntuale l’incidente che li fa uscire di strada per parcheggiarli non si sa bene come davanti a un’inquietante casetta di legno sperduta nei boschi. Da questo momento in poi, ai poverini capiteranno solo cose molto brutte e dolorose. Nulla di originale, direte voi, ma aspettate a lasciarvi scoraggiare dai pregiudizi, perché il film di Roberto De Feo e Paolo Strippoli nasconde più assi nella manica di quanti ne possiate immaginare. C’è un motivo se sta riscuotendo tanti applausi in questo periodo e la vetrina globale di Netflix sta dando al film una visibilità internazionale che l’horror italiano credo non toccasse dai tempi d’oro di Fulci e Argento.
La forza di A Classic Horror Story risiede anzitutto nel modo in cui vengono reinterpretati i cliché narrativi che accompagnano il genere sin dall’alba dei tempi. L’obiettivo è chiaro sin dall’inizio: pescare fra quanto di più classico l’horror abbia mai regalato e costruirci una storia originale, che tra l’altro affonda le radici nel folclore italiano e nella leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso (chi??), i tre fratelli che – si racconta – fondarono la prima associazione mafiosa nel 1400. Ma come: un film horror che strizza l’occhio a cult come La casa o Non aprite quella porta e che parla anche di mafia? Sì e in fondo perché il binomio dovrebbe sorprendere? Quello di A Classic Horror Story è un orrore mascherato, che nasconde sotto costumi e riti pagani una paura molto più reale, che ancora oggi non ha smesso di attanagliare l’Italia.

Il segreto, per operazioni di questo tipo, è saper modellare la materia prima che si ha a disposizione e De Feo e Strippoli sanno bene quello che fanno (così come Netflix che ha creduto nel progetto). Danno al film un’impronta sì citazionista e meta-cinematografica, stile Scream o Quella casa nel bosco per capirci meglio, ma anche profondamente autoriale, costruendo un preciso senso d’identità che trasforma il “già visto” in qualcosa che ribalta i punti di vista.
E proprio il momento in cui il twist si svela, coincide con la rivelazione del vero messaggio di cui il film si fa veicolo. Un messaggio che è duplice: da una parte riflette sulle difficoltà, oggi, di produrre horror in Italia e di essere presi sul serio dal proprio pubblico di riferimento (la scena mid-credit è la ciliegina sulla torta); dall’altro punta il dito contro quella spettacolarizzazione del macabro che purtroppo fa parte della nostra realtà, in cui è più importante “creare contenuti” con lo smartphone, essere spettatori passivi, piuttosto che parte attiva di ciò che ci succede intorno.
Retorica? Forse, anche un po’ di furbizia magari, ma è tutto figlio di una rimarchevole cura dei dettagli e di una scelta stilistica che punta più sull’inquietudine del non visto anziché sul gore e lo splatter. Nella stessa situazione, un Eli Roth di turno avrebbe immerso lui e chiunque altro in un mare di sangue finto, invece il duo di registi italiani decide di non rendere la violenza così esplicita, senza diminuire la tensione.
In tutto questo, Matilda Lutz, che dopo Revenge torna protagonista femminile di un film in cui non le viene risparmiato nulla in termini di botte o ferite. È lei la final queen, simbolo ultimo di un mondo che osserva il dolore e poi si gira dall’altra parte.