Dune, la lezione della fantascienza di Villeneuve

Dune, la lezione della fantascienza di Villeneuve

18/09/2021 0 Di AndreMovie

Se esiste, oggi, un intellettuale prestato al cinema, questo è Denis Villeneuve. Sin dall’inizio della sua carriera è stato più un regista di pensiero che di azione. I suoi film costruiscono vere e proprie stratificazioni di significati, tanti cassetti pieni di tematiche profonde, simili a saggi filosofici che rappresentano una bella sfida per l’attenzione dello spettatore. Impossibile guardarli con l’approccio di un Fast & Furious, serve una buona dose di concentrazione per afferrare tutto ciò che il suo cinema ha da dire. E il primo, grande pregio del regista canadese, è quello di aver difeso questa visione artistica anche quando è stato chiamato dalle grandi produzioni Hollywoodiane, dopo gli applausi ottenuti nel contesto indipendente con lavori come Enemy e Prisoners.

Il primo passo è stato Sicario, thriller teso con Emily Blunt, Josh Brolin e Benicio del Toro; quindi Arrival, un film su un’invasione aliena che in realtà è una profonda riflessione sul tempo e sulla comunicazione; poi la grande prova di Blade Runner 2049, che l’ha messo a confronto con l’eredità del capolavoro di Ridley Scott. Due step fondamentali del suo modo di concepire la fantascienza, che infine l’hanno portato di fronte allo spartiacque della sua carriera: il nuovo adattamento di Dune, romanzo di Frank Herbert a cui la fantascienza cinematografica deve moltissimo (Star Wars in testa).

Quello di Herbert è un mondo nato da un ciclo composto da sei romanzi: Dune, Messia di Dune, Figli di Dune, L’imperatore-dio di Dune, Gli eretici di Dune e La rifondazione di Dune. Già nel 1984 David Lynch l’aveva portato al cinema con una trasposizione a cui non hanno mai risparmiato critiche, soprattutto verso una sceneggiatura non proprio omogenea. In difesa del buon David, la sua era un’impresa persa in partenza: immaginatevi cosa possa voler dire condensare sei libri in un unico film. Villeneuve e Warner Bros. hanno aggirato questo problema nel modo più intelligente che si sintetizza in una parola: saga. Il nuovo Dune è infatti solo il primo capitolo di un progetto che dovrebbe tenere il regista un tantino impegnato nei prossimi anni. Un sequel non è ancora in lavorazione ma è già stato confermato e si parla persino di possibili spin-off televisivi. Una cosa in grande, dunque, che Villeneuve ha affrontato con la gioia di un bambino davanti a un sogno che si è avverato.

Più volte, nel corso del press tour del film, ha ribadito quanto Dune fosse il film che desiderava realizzare sin dal giorno uno del suo percorso professionale. Il lavoro di Herbert lo conosce da quando era ragazzino e l’esperienza con il materiale di riferimento è sempre fondamentale per un adattamento. E infatti la versione di Villeneuve si presenta con l’epicità di un kolossal di due ore e mezza, forte di un budget di 116 milioni di dollari, che alterna con impressionante fluidità momenti di riflessione a parentesi più action. Il ritmo non oscilla, sembra compassato, troppo lento, ma la verità è che il battito è perfettamente sotto controllo, monitorato da chi dipinge campi lunghi, panoramiche e primi piani con movimenti di macchina resi ancora più ipnotici e magnifici dalla colonna sonora sempre pazzesca di Hans Zimmer.

Dune è un film da vedere, ma on solo. È un film da ascoltare, “sentire”, comprendere. C’è molto più da afferrare oltre la pura fantascienza cinematografica

La prima parte funge da introduzione: ci presenta i tanti personaggi e il mondo che li circonda. Un futuro fatto di casate, “streghe” (le Bene Gesserit, sorellanza dai poteri straordinari che pare avrà una sua serie tv) e famiglie in lotta per il controllo su un pianeta, Arrakis, desertico ma ricco della Spezia, materia prima che è un tesoro per tutti. Paul è il protagonista: primogenito ed erede al trono del prestigioso albero genealogico degli Atreides, è un giovane principe solo all’inizio di un viaggio che è anzitutto una lunga ricerca di se stesso.

Timothée Chalamet in una scena di Dune

Lo interpreta Timothée Chalamet, una delle giovani star di Hollywood più in ascesa. Ho sempre avuto un rapporto complesso con lui: ne riconosco il talento, ma ha uno sguardo perennemente addormentato che spesso e volentieri mi fa venire voglia di prenderlo a schiaffoni per svegliarlo. Qui però è perfetto perché riesce a svelare tutta l’incertezza di un ragazzo destinato a un ruolo ben più grande di lui. Il suo è un futuro che scorre sul sentiero di profezie messianiche e che alterna realtà e sogno da svegli o dormienti. E la fisicità di Chalamet, allungata e asciutta, racchiude al tempo stesso fragilità d’animo e letale rapidità in battaglia.

Da lui, dalle sue visioni, prende corpo l’universo di un film dalle atmosfere infinite e avvolgenti come il deserto in cui è ambientato, panorama unico per dispersione e alienazione. E così come accadeva dietro il forte simbolismo di Arrival, Villeneuve nasconde sotto la sabbia i maggiori sottotesti del film, quali la deriva dell’ambizione capitalistica, l’anti-colonialismo, il tradimento, il rapporto con la natura e i pericoli che nascono fra lo scontro di religioni diverse, tutte tematiche ovviamente centrali anche nell’enorme opera di Herbert. A questo si aggiunge l’imponenza degli interni e la grandiosità delle macchine, volanti e non. Di fronte a entrambe, l’uomo quasi si perde, diventa piccolo piccolo al pari della più umile delle formichine, finendo schiacciato dal senso di solitudine che pervade l’intera storia. Forse sì, la forma a tratti sovrasta la sostanza, ma questo lo si perdona pensando appunto alla natura da episodio 1 del film.

In tutto questo, mi piace cullarmi nel pensiero che la fantascienza di Villeneuve possa essere davvero un mezzo per imparare qualcosa. Dune è un film da vedere, ma on solo. è un film da ascoltare, “sentire”, comprendere. C’è molto più da afferrare oltre la pura fantascienza cinematografica e nelle mani del regista – che non si compiace del suo perfezionismo – il genere torna a interrogarsi seriamente sulle grandi domande esistenziali che da sempre ne alimentano l’ispirazione, sui libri come in sala. E lo fa attraverso l’arma più preziosa: il tempo. Se lo prende in ogni scena, ma soprattutto lo concede a noi per riflettere sui suoi stessi argomenti, che guardano sì al futuro ma raccontano del presente, risuonando come un campanello d’allarme che sarebbe meglio smettere di ignorare.