
Assassinio a Venezia, ai confini della ragione
18/09/2023Dopo due classiconi come Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo, Kenneth Branagh continua a pescare nel calderone di Agatha Christie. Stavolta è Halloween Party il libro dell’autrice inglese a ispirare l’attore e regista, che in Assassinio a Venezia ritrova il suo Hercule Poirot per buttarlo in una storia che ai tradizionali elementi del giallo unisce richiami horror.
Branagh è autore di inopinata intelligenza e conosce bene le regole del gioco. Dopo aver costruito due film alzando via via la posta in gioco, per dare continuità al crescendo della trilogia era necessario proporre qualcosa di diverso rispetto ai primi due successi, per il pubblico e anche per il suo protagonista. Quindi, ecco la sfida: mettere a confronto la mente razionale, metodica e analitica del detective belga con una dimensione che sfugge alla ragione: il soprannaturale.
La Notte di Halloween, una casa infestata (con tragici avvenimenti collegati) e una seduta spiritica. La storia si muove in questo territorio e stuzzica con una domanda: “Siamo in ambiente truffaldino o c’è qualcosa che persino gli occhi del detective migliore del mondo non vedono?”. L’interrogativo tormenta Poirot come mai prima e noi con lui ci ritroviamo a dubitare delle nostre percezioni, delle nostre intuizioni. Di ciò che crediamo di aver capito (o di aver visto e sentito).
Mischiare le carte è la prima regola di un racconto giallo che si rispetti e sinora i film di Branagh l’avevano fatto egregiamente, con cast costruiti ad arte per rendere tutti i personaggi sospettabili. In Assassinio a Venezia lo schema di fondo non cambia – introduzione, omicidio, indagine, risoluzione – ma di nuovo c’è un’atmosfera di ancor più ampio respiro, che quasi si prende gioco delle logiche alla base dei casi sull’Orient Express e sul Karnak lungo il Nilo. Vicende che, per quanto drammatiche, si ricucivano con un preciso filo rosso di domande e risposte, indizi e rivelazioni. Qui la struttura deduttiva del whodunnit è confusa da sussurra, rumori improvvisi, apparizioni macabre e dal buio ingannatore di una città come Venezia, che maschera la verità per sua stessa tradizione. Tutti elementi di rottura con l’ordine classico che avevamo imparato a conoscere e che ora si scontra con il dubbio e le conseguenti ambiguità di una vita possibile anche dopo la morte.

L’Aldilà non può essere accettabile per Poirot, perché è un concetto che sfugge alla concretezza. Un pragmatismo ora addormentato, perché il detective si è ritirato in Laguna lontano da misteri da risolvere. Il peso delle vittime (fantasmi) che si porta sulle spalle si fa sentire e questa è solo una delle tante sfaccettature con cui Branagh ci racconta il personaggio sin dall’inizio. Un’icona tutt’altro che monocorde, perché non è solo il segugio a cui nulla sfugge. Nel corso dei tre film, abbiamo imparato che questo Poirot ha un passato, un presente e un futuro incerto, che lo tiene a galla come in un limbo. Per questo l’atmosfera in cui lo ritroviamo gli calza a pennello: un’indagine dai contorni offuscati come il suo animo.
In più, la chiusura in cui Poirot si è rintanato coincide con uno dei principali sottotesti del film: Assassinio a Venezia è anche – o forse soprattutto – una storia di chiusure e aperture, si parli delle porte di una casa o di allargare gli orizzonti di ciò in cui si crede. L’abilità di Branagh sta nell’essere riuscito a tracciare il giusto confine fra gli opposti, in quest’ultimo capitolo come nell’economia dell’intera trilogia.
Un confine di menzogne e verità, fra spazi piccoli quali la cabina di un treno, vasti come il Nilo, o stretti come il canale più angusto di Venezia. In questa rete di contrasti, la macchina da presa si muove senza soste, a volte quasi disorientata come lo sguardo inquieto di Poirot, allucinato da visioni e indizi che gli si presentano non solo per lucida intuizione ma attraverso forze all’apparenza inspiegabili. Un senso di smarrimento enfatizzato da trucchetti del mestiere horror non certo nuovi, ma neppure fuori dal coro, al contrario parte funzionale di un lavoro consapevole.
A onor del vero non tutto è così illeggibile nello svolgimento del giallo, ma l’imprevedibilità è garantita dal fumo negli occhi, dal ribaltamento dei punti di vista che ci sbalza prima in una direzione e poi in un’altra. E alla fine, serve un buon livello di attenzione al dettaglio per arrivare in pari con l’illuminazione decisiva di Poirot.
La soluzione dell’enigma è simbolo di ripartenza, di un’energia ritrovata e rinvigorita dalla consapevolezza che l’indagine, stavolta, ci abbia lasciato anche qualcosa in più, non necessariamente razionalizzabile. Perché è vero, in questa vita siamo tutti di passaggio. Ma questo passaggio lascia sempre una traccia. Come scoprirla e interpretarla, poi, sta alla sensibilità di ognuno di noi.
Quello che si nota a primo acchito sono sicuramente le numerose citazioni e terminologie inerenti all’occulto. Narrazione ben studiata e nulla da ridire sulla scenografia, in un contesto che si adatta perfettamente al tema.
Da notare anche di come il famoso canto dei bambini interagisca con lo spettatore, spostandosi da un lato all’altro della sala cinematografica (alcune persone si sono addirittura girate).
Unica pecca, ahimé, è che si intiusce fin da subito (se non quasi) il colpevole. Sentendo numerosi pareri, il film delude complessivamente solo per questo particolare, ma non è il mio caso. Il film quadra e tutto scorre come deve, lasciando un alone di mistero se la parte della ragione scorra verso la razionalità o il soprannaturale.
Voto: 6,5