
The Creator, il nemico siamo noi
26/09/2023Sin dai tempi di Monsters (2010), la piccola gemma fanta-horror con cui si è fatto conoscere a Hollywood, Gareth Edwards ha dimostrato di conoscere molto bene il genere sci-fi. Il grande salto nella terra dei blockbuster, prima con quel gigantesco cucciolone di Godzilla (2014), poi con Rogue One: A Star Wars Story (2016), gli ha portato solo applausi e ora, a sette anni dall’ultima fatica, il regista torna al cinema con The Creator.
Un progetto ambizioso, rallentato dalla pandemia ma arricchito da una lavorazione che ha portato Edwards e troupe a viaggiare fra Thailandia e Indonesia alla ricerca delle location perfette. Tanto lavoro per un film che sembra la summa di tutte le conoscenze del regista britannico, che stavolta ci parla con un linguaggio d’unione tra war movie e sci-fi. Per capirci, prendete quanto di meglio la memoria possa offrirvi dei film sulla guerra del Vietnam (due così, Platoon e Apocalypse Now) e avvicinatelo ai must della fantascienza a tema intelligenza artificiale, da A.I. a Io, Robot.
Queste coordinate ci guidano in un futuro in cui uomini e macchine prima convivono, poi, dopo un’esplosione nucleare che spazza via Los Angeles, finiscono in guerra. Un ex membro delle forze speciali (John David Washington) viene reclutato per trovare il Creatore, la mente dietro le avanzate IA rifugiate nella cosiddetta Nuova Asia. Un architetto inafferrabile che ha sviluppato un’arma in grado di porre fine all’umanità. Un’arma con le sembianze di una bambina.
Edwards sviluppa il concept pescando da immaginari narrativi noti: i riferimenti sono molto chiari, inseriti in una storia raccontata secondo un approccio sempre realistico e funzionale, senza virtuosismi fini a se stessi o una CGI ingombrante.
Gli androidi, che siano robot tout court o ibridi uomo-macchina, sono empatici quanto basta per essere più umani degli umani stessi, che proprio non ci tengono a fare bella figura in questa nuova traduzione dello scontro Occidente-Oriente. Perché la Nuova Asia è come il Vietnam: una foresta fitta, attraversata da lunghi fiumi e popolata da villaggi pacifici, abitati da famiglie di contadini in perfetta convivenza con organismi intelligenti che, come tali, sfuggono ai limiti della mera artificialità. Edwards ci mostra tutto attraverso scene di quotidianità, con sguardo attento, quasi documentaristico, che avvicina e amplifica il dolore della devastazione.
E’ chiaro come l’IA, oltre a essere simbolo di evoluzione (della nostra specie?), rappresenti il diverso che sogna l’integrazione. The Creator, col suo animo pacifista, insiste più su questo concetto piuttosto che sulle conseguenze oscure del progresso. Qui non c’entra la tecnologia ribelle di Terminator, né le domande esistenziali sulla natura degli androidi di Blade Runner; è l’uomo che fa e disfa, è l’uomo che accoglie e bandisce. Se in Apocalypse Now c’era chi adorava l’odore del Napalm al mattino, anche qui i marines americani atterrano solo per distruggere. Si agisce con l’obiettivo dichiarato di portare una razza all’estinzione, nascondendosi dietro l’incubo di una nuova catastrofe nucleare.
Lo spunto da denuncia socio-politica non è poi così velato dunque, e ancora una volta l’uomo si conferma creatore e distruttore: una dicotomia intorno cui il film gioca sin dal titolo e che ben si delinea nella figura di Alfie, “l’Arma definitiva”. Miracolo di creazione e allo stesso tempo di distruzione, la bambina è il cuore emotivo del film, che si intensifica con la crescita del rapporto padre-figlia con il protagonista (un John David Washington sempre versatile nell’alternare azione e sentimento).
Il punto debole di The Creator è l’essere un film che non vuole prendersi rischi e sceglie di restare in territori già esplorati, senza aggiungere nulla al panorama. Mi aspettavo di più? Sì, perché in Gareth ci credo sin dall’inizio. Però la sua fantascienza non ha mai avuto la stessa profondità del taglio di Villeneuve, o la patina sporca e indie del primo Neil Blomkamp di District 9 (poi persa, ma questa è un’altra storia…). Quindi, con morbida obiettività, si può dire che in sala arriva comunque un prodotto solido e ordinato, che si presenta sin da subito per quello che vuole essere, senza fumo negli occhi. E la firma di Edwards si conferma variazione moderna, pop e personale di un autore che conosce il proprio mestiere e non perde di vista la riflessione su grandi temi e altri mondi alla base del genere.